La mostra comprende oltre 200 artisti provenienti da 58 paesi diversi, di questi, 180 partecipano alla Biennale per la prima volta e, sempre per la prima volta, la maggioranza sono donne o di genere neutro. Non ci sono dubbi, non siamo abituati, almeno in Italia, a vedere mostre così importanti curate da donne, e non siamo nemmeno abituati a una narrazione diversa da quella dominante del Maschio Bianco. Questa femminilità, desiderata o non desiderata, è così presente e potente che trascende le opere e diventa parte degli ambienti stessi: c'è un "odore femminile" negli spazi espositivi, di sudore, di latte, di sangue, e di tutte quelle vischiosità che appartengono a parti del corpo che spesso vengono taciute o raccontate in modo stereotipato. C'è Gwendolyn, una delle famose Nanas (ragazze) di Nike de Saint Phalle, che esplora le possibilità del corpo deformandone le proporzioni, regalandoci addomi bulbosi e seni sporgenti. Ci sono dipinti di Miriam Cahn, 28 opere dedicate al parto, alle mestruazioni e alla sessualità di ogni tipo. Ci sono gli psicodrammi domestici di Paula Rego, che riflettono sugli aspetti problematici della famiglia e della casa, trasformando il quotidiano in grottesco. E poi ci sono le fotografie di Aneta Grezeszyk, che sovvertono il tradizionale rapporto madre-figlia attraverso l'interazione tra la figlia dell'artista e una bambola di silicone raffigurante la madre. Su tutto questo veglia Brik House, la gigantesca scultura di Simone Leigh situata all'ingresso dell'Arsenale, raffigurante una figura femminile senza occhi. Perché ultimamente ci sono tante cose che le donne preferirebbero non vedere. A contribuire a questo sentimento femminile che determina la mostra, però, non sono solo le artiste, i temi trattati e le Grandi Madri che vegliano con assertività sulle loro creature. Ampio spazio è dato anche alle tecniche tradizionalmente considerate femminili, come il ricamo, il macramè e la tessitura. Nascono così corpi e paesaggi tessili, che raccontano storie di telai, filatoi, aghi e fili e tutti quegli oggetti e quel saper fare che sono tipici, ad esempio, del mondo della moda e che nessuno, in questo secolo del fast fashion e degli abiti usa e getta, sembra ricordare. È il caso delle gigantesche sculture di Mrilnani Mukherjee, realizzate con l'antica tecnica araba del macramè, degli onirici arazzi dell'artista tunisina Safia Farhat, dei talismani di Tain Lewis realizzati con tessuti di scarto e tenuti insieme dalla pazienza e dal dolore fisico (mani, schiena, testa, perché non è tutto oro quello che luccica). E poi c’è l’opera tessile di Igshaan Adams, un capolavoro di fili, stoffe, perline, nodi e intrecci, perché vogliamo sperare che, nel 2022, “femminile” non significhi più appannaggio esclusivo delle donne o, peggio ancora, “frivolo”, ma piuttosto un aperto invito a esplorare una dimensione artistica, sociale e culturale che appartiene a tutti ma che per troppo tempo è stata tenuta lontana dai riflettori della scena artistica internazionale, relegata negli equivalenti creativi delle soffitte delle nonne come non molto tempo fa lo si faceva con le donne ribelli. Grazie a Milk and Dreams di Cecilia Alemani, alle creature magiche di Leonora Carrington e alla stessa Biennale, che guarda al futuro senza impavido anche quando il presente appare desolato. Sperando che sia l’inizio di una nuova, lunga, fantastica storia.