BiennaleVenezia 2022

Biennale Venezia 2022
Mentre sembra che il mondo intero, compresa la moda e l'arte, sia passato alla realtà virtuale cimentandosi nella creazione di NFT e progetti Metaverse-friendly come raccolte di avatar e opere d'arte di fatto inesistenti (se si collega il concetto di esistenza, ad esempio, alla propria casa o a qualsiasi luogo all'interno del quale si possa camminare, respirare, ecc.), la mostra centrale della Biennale Arte 2022, curata quest'anno da Cecilia Alemani, offre una prospettiva diversa, ricordandoci che l'aspetto visivo le arti sono – tuttora – fatte di materiali, tecniche e oggetti reali con cui lo spettatore può, e deve, entrare in relazione attraverso un approccio multisensoriale – vista, tatto, olfatto, udito. Manca poco il gusto, ma il sapore di certe opere si sente ancora, anche in bocca. Già il titolo della mostra “The Milk of Dreams”, il latte dei sogni, richiama un immaginario meno distopico di quello in cui ci siamo immersi, anche grazie alla pandemia, negli ultimi due anni: latte, sogni, bianco , morbidezza. E anche la maternità, intesa non necessariamente come “madre” ma piuttosto come “femminile che nutre”, attraverso il latte ma anche attraverso storie, racconti e, soprattutto, attraverso le mani, che creano, guidano, insegnano, tramandano discipline che alcuni credevano erano morti e sepolti. Il latte dei sogni è il titolo di un libro per bambini scritto da Leonora Carrington in cui l'artista surrealista descrive un mondo magico, visto attraverso il prisma dell'immaginazione, abitato da creature mutevoli e dalle molteplici sfaccettature: un mondo liberato, in cui chiunque può trasformarsi e diventare qualcuno o qualcos'altro. Cecilia Alemani popola il padiglione centrale dei Giardini e alcuni spazi del complesso dell'Arsenale con le creature di Carrington, che guidano lo spettatore in un viaggio attraverso le metamorfosi del corpo, le definizioni dell'umano e i rapporti tra uomo e animale, organico e inorganico . La mostra si basa sui dialoghi intrapresi da Alemani e dagli artisti partecipanti nel corso di diversi anni: “Come cambia l’idea dell’umano? Cosa costituisce la vita? Cosa differenzia la pianta dall'animale? L'animato dal non animato? E come affrontare tutto questo in un’epoca segnata dalle catastrofi?” Sia il curatore che gli artisti prendono atto della tecnologia contemporanea e della sua forza rivoluzionaria, ma invece di limitarsi a “smascherarla”, la affrontano evidenziandone le contraddizioni: da un lato le possibilità della scienza, dall’altro il legittimo timore che l’artificiosità l’intelligenza prende il controllo totale della nostra esistenza.

La mostra comprende oltre 200 artisti provenienti da 58 paesi diversi, di questi, 180 partecipano alla Biennale per la prima volta e, sempre per la prima volta, la maggioranza sono donne o di genere neutro. Non ci sono dubbi, non siamo abituati, almeno in Italia, a vedere mostre così importanti curate da donne, e non siamo nemmeno abituati a una narrazione diversa da quella dominante del Maschio Bianco. Questa femminilità, desiderata o non desiderata, è così presente e potente che trascende le opere e diventa parte degli ambienti stessi: c'è un "odore femminile" negli spazi espositivi, di sudore, di latte, di sangue, e di tutte quelle vischiosità che appartengono a parti del corpo che spesso vengono taciute o raccontate in modo stereotipato. C'è Gwendolyn, una delle famose Nanas (ragazze) di Nike de Saint Phalle, che esplora le possibilità del corpo deformandone le proporzioni, regalandoci addomi bulbosi e seni sporgenti. Ci sono dipinti di Miriam Cahn, 28 opere dedicate al parto, alle mestruazioni e alla sessualità di ogni tipo. Ci sono gli psicodrammi domestici di Paula Rego, che riflettono sugli aspetti problematici della famiglia e della casa, trasformando il quotidiano in grottesco. E poi ci sono le fotografie di Aneta Grezeszyk, che sovvertono il tradizionale rapporto madre-figlia attraverso l'interazione tra la figlia dell'artista e una bambola di silicone raffigurante la madre. Su tutto questo veglia Brik House, la gigantesca scultura di Simone Leigh situata all'ingresso dell'Arsenale, raffigurante una figura femminile senza occhi. Perché ultimamente ci sono tante cose che le donne preferirebbero non vedere. A contribuire a questo sentimento femminile che determina la mostra, però, non sono solo le artiste, i temi trattati e le Grandi Madri che vegliano con assertività sulle loro creature. Ampio spazio è dato anche alle tecniche tradizionalmente considerate femminili, come il ricamo, il macramè e la tessitura. Nascono così corpi e paesaggi tessili, che raccontano storie di telai, filatoi, aghi e fili e tutti quegli oggetti e quel saper fare che sono tipici, ad esempio, del mondo della moda e che nessuno, in questo secolo del fast fashion e degli abiti usa e getta, sembra ricordare. È il caso delle gigantesche sculture di Mrilnani Mukherjee, realizzate con l'antica tecnica araba del macramè, degli onirici arazzi dell'artista tunisina Safia Farhat, dei talismani di Tain Lewis realizzati con tessuti di scarto e tenuti insieme dalla pazienza e dal dolore fisico (mani, schiena, testa, perché non è tutto oro quello che luccica). E poi c’è l’opera tessile di Igshaan Adams, un capolavoro di fili, stoffe, perline, nodi e intrecci, perché vogliamo sperare che, nel 2022, “femminile” non significhi più appannaggio esclusivo delle donne o, peggio ancora, “frivolo”, ma piuttosto un aperto invito a esplorare una dimensione artistica, sociale e culturale che appartiene a tutti ma che per troppo tempo è stata tenuta lontana dai riflettori della scena artistica internazionale, relegata negli equivalenti creativi delle soffitte delle nonne come non molto tempo fa lo si faceva con le donne ribelli. Grazie a Milk and Dreams di Cecilia Alemani, alle creature magiche di Leonora Carrington e alla stessa Biennale, che guarda al futuro senza impavido anche quando il presente appare desolato. Sperando che sia l’inizio di una nuova, lunga, fantastica storia.